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Per sempre resteremo qua

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Signori d'Arabia non ci avrete mai, viva il calcio di sana provincia

Lo strappo alla regola. Mi ero ripromesso di non scrivere una sola parola del Verona, l’unico calcio che ormai cattura il mio interesse e suscita in me ancora emozioni, almeno fino alla fine del mercato. Una questione di serietà e rispetto verso chi ancora a questo mondo vuol credere. Ci vuol prudenza, perché nel metaverso del pallone impazzito, ogni tua parola è fatta per essere puntualmente smentita dai fatti. Parli di Tizio, e se ne va; parli di Caio, e se ne va pure lui; resterebbe il futuro di Sempronio, ma è incerto almeno quanto la felicità a momenti di Tonino Carotone.

Iniziare un campionato a mercato aperto è una sconcezza alla quale dovremo, temo, sottostare ancora per un po’. Non si capisce perché, se non tenere in piedi il circo mediatico estivo tra notturne trasmissioni televisive (trasformate in cabaret) e prime pagine roboanti di fuffa sui quotidiani sportivi. Non si capisce perché  il suk del pallone non possa aprire all’indomani della scadenza dei contratti al 30 giugno, quindi il 1°luglio e chiudere al 31 prima dell’avvio della stagione.  Squadre fatte ai blocchi di partenza, roba normale mica chissà che cosa. E invece niente da fare, ogni anno il diritto e la ragione calpestati come un mozzicone sul marciapiede. Vecchia storia, che non finisce di scandalizzarmi tuttavia.

E vabbè, non ve la faccio tanto lunga; dov’eravamo? Ah già, allo strappo alla regola. Sì, perché non si può non parlare di quanto il Verona ha fatto in queste due prime uscite di campionato, e soprattutto ieri sera contro la Roma, una delle (presunte) grandi del nostro calcio attuale. La regola del silenzio va rotta, strappata di fronte a una notte che ricorderemo a lungo e, per quanto mi riguarda, mi fa fare la pace col pallone, alla faccia dei Paperoni d’Arabia. Il denaro muove e blocca tutto, e tutto si compra nel Nuovo Rinascimento sotto la tenda beduina del mercimonio. Ma l’emozione e il cuore, gli sceicchi non li compreranno mai. A nulla varranno petrodollari e regge dorate. Ogni cosa ha un prezzo, si dice. No, perché, e meno male, ci sono ancora cose che un prezzo non ce l’hanno e non lo avranno mai: sono le palpitanti emozioni che abbiamo provato ieri sera.

L’umiltà che stende la supponenza di chi sente grande ma non lo è, di chi pensa più a star addosso e condizionare l’operato dell’arbitro piuttosto che giocare a pallone. Cose già viste quando al Bentegodi viene la Roma piagnona: una volta toccava a Totti e De Rossi, ora a Pellegrini, Cristante e Mancini. Peggio per loro, noi gli abbiamo sbattuto sul muso cuore e due attributi grandi così. Ma non solo: in due partite abbiamo ritrovato due cose a noi sconosciute solamente fino a pochi mesi fa: ebbene sì, abbiamo una squadra (speriamo che l’ultima settimana di mercato non faccia danni) e, soprattutto, un allenatore. Vi pare poco? Ora stiamo calmi, godiamoci queste due vittorie, e poi giù a sgobbare a pancia a terra fino alla fine, perché sarà durissima anche quest’anno, non illudiamoci. Vedremo. Intanto, bene così.

Ma la gioia più grande è il messaggio che sprigiona una notte magica come quella di ieri: l’aver preso a ceffoni chi nel calcio vede solo un prodotto da comprare e importare nel proprio centro commerciale eretto nel deserto. No, il calcio, almeno il nostro di sana provincia, è altro. È una cosa che voi padroni d’Arabia non sapete manco che esista; è un sentimento popolare che si chiama appartenenza, è un bene immateriale come quelli riconosciuti dall’Unesco che potete avere tutti i soldi che volete ma sugli scaffali non ci va. L’’emozione che alberga nel cuore non è in vendita. Non ci avrete mai, cari signori: noi per sempre resteremo qua.

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