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L’elogio della follia, è un pazzo Verona a cui manca l’ultimo miglio

Getty Images

Troppi i gol presi e i finali sono fatali

Lorenzo Fabiano

Cuore e batticuore. L’elogio della follia del calcio, bizzoso più del vento. È successo di tutto nella pazza notte di Marassi: per 75 minuti il Verona il Genoa se lo è girato a piacimento come un calzino: due gol in vantaggio, e potevano essere anche tre, risultato in glacette, «champagne, merci!».

Igor dei Tudor le aveva indovinate tutte e l’amletico Ballardini, uno che alla partita assiste come se si trovasse davanti a un dilemma esistenziale, se lo era messo nel taschino delle tutona. Il Verona a due punte girava a meraviglia, Simeone timbrava la sua prima rete in gialloblù e si procurava il rigore del raddoppio, Tameze portava l’acqua a un sontuoso Ilic, la difesa reggeva senza patemi. Due a zero e partita incanalata in discesa.

Poi, alla mezzora della ripresa, quella carambola maledetta sul braccio dello iellato Dawidowicz, peraltro fino a quel momento impeccabile, ha riaperto tutto e tutto è girato. Perché così va il calcio. Nell’elogio della follia, un capitolo spetta a Mattia Destro: dopo non aver in pratica visto palla per 80 minuti, si è di colpo svegliato, ma ci abbiamo messo del nostro, e in cinque giri di lancette ci ha fatto ammattire ribaltando tutto. Altro che champagne; con la salivazione a zero e i sudori freddi, nel calice ci siam trovati un misero sgasato bianchetto, acidulo e bello ossidato.

Per fortuna che un Nikola Kalinic in settimanale versione “Risvegli” ha trovato l’incornata buona, altrimenti ancora saremmo qui a rantolarci nelle stilettate di un attacco notturno d’ulcera. È finita in un pari schizofrenico, miscela di rabbia e sollievo. Uscire con nulla, sarebbe stata un’atroce ingiustizia; insieme a questo punto, il secondo in tre giorni in trasferta, prendiamoci allora anche un paio di considerazioni. In poco tempo Igor dei Tudor ha rimesso il Verona sulla retta via; la squadra gioca bene, ha ridato fuoco alle polveri, a lungo bagnate, dell’attacco, e conferma come la rosa ben confezionata dall’arguto Tony D’Amico sia ampia; qualcosa, pur tuttavia ancora non va; perché se vero che la strada del gol non è più un vicolo cieco, è altrettanto vero che subiamo troppo: 14 gol al passivo in 6 partite sono oggettivamente troppi per una squadra abituata negli ultimi due anni a dosarli col contagocce.

Fatale l’ultimo miglio: questo Verona ricalca la fibra all’italiana, che corre veloce e spedita fino a pochi metri da casa, ma quando poi passa al cavetto di rame annaspa e va a rilento. Le partite di calcio durano però 95 minuti, e non è un dettaglio; questo dobbiamo mettercelo in zucca e nelle gambe. E anche in fretta. Tre gare ogni due giorni sono una genialata che gli spin doctors del pallone tributano alle pay-tv (Tudor lo ha detto senza girarci tanto intorno), ma è un supplizio che vale per tutti.

Con il raggiungimento di una condizione atletica ottimale, che poi alla lunga incide sulla testa, dovremmo arrivare a rendere i finali di partita una pillola meno amara. Intanto, su una cosa possiamo trovarci tutti d’accordo: avrà tutti i difetti del mondo questo nostro Verona: ti fa palpitare, soffrire, gioire e incazzare, ma non ti annoia mai. Metteteci tutto, ma la noia, quella proprio no. Pazza squadra per una pazza fede, direbbe Tim Parks. Prendiamola così.

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