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L’ora di cambiare (in ritardo)

La figuraccia con il Benevento è il capolinea per il Verona di Grosso. Troppi gli errori commessi

Lorenzo Fabiano

«Di dieci cose fatte te n'è riuscita mezza e dove c'è uno strappo non metti mai la pezza». Così cantava Jovanotti nel 1992. Ventisette anni dopo, qualche capello in meno e qualcuno di grigio in più, l’allergia a Jovanotti è rimasta quella di allora, tuttavia il motivetto è affiorato nelle orecchie come un castigo al ritorno verso casa dalla Pasquetta da incubo vissuta nel gelido deserto del Bentegodi. Che non sarebbe stata un gran giornata ve n’erano tutte le premesse: piazzare un turno alle tre del pomeriggio del giorno di Pasquetta è una genialata da Premio Nobel tale, che verrà ripetuta in occasione del 1 maggio. Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. Uno stadio semideserto era il minimo che ci si potesse attendere. Il Bentegodi è già brutto di suo, ma quando è vuoto è un vero pianto. Chissà come andrà a finire con la Nuova Arena, che tanti allegri entusiasmi non sprizza, se da disegnini finora forniti esibisce di più le macabre sembianze di un mausoleo che di uno stadio da pallone. Evidentemente aleggia un karma di malinconica tristezza che cervellotici architetti ritengono di elevare a valore aggiunto. Boh…vedremo che ne verrà fuori.

E veniamo alle magagne quotidiane di un Verona che balbetta e inciampa. Che tonfo ragazzi! Tre ceffoni e tutti a casa, altroché grigliate di ciccia, colombe ai canditi e libagioni. Ma che bella la Pasquetta gialloblù! Il Benevento è nei nostri destini più nefasti: lo scorso anno l’inverecondo 3-0 al Vigorito sancì di fatto la resa; quest’anno i sanniti sono saliti sin qua a rifilarci tre pedate nel sedere.  A distanza di un anno, nulla pare essere di fatto cambiato in casa del Verona: squadra molliccia era, squadra molliccia è. Dopo una retrocessione come quella dello scorso campionato, il Verona aveva il dovere di ricucire lo strappo con la piazza legittimamente delusa attraverso atteggiamento e risultati. Sia chiaro, vincere non è un obbligo per nessuno, ma provarci mettendo sul campo l’anima, sì. Al di là dei risultati men che modesti, il Verona di Fabio Grosso un’anima non l’ha mai avuta. Ha espresso idee di calcio soporifero e barocco, fatto di stucchi e contro stucchi, di parentesi graffe e quadre e quadre, mai di equazioni. La spada l’ha sguainata di rado. Il percorso del Verona è stato questo sin dall’inizio; ha proseguito a singhiozzi alternando qualche buona prestazione e cadute di tono e colossali imbarcate. Un gruppo smarrito nei labirinti tafazziani che esso stesso si è creato con impennate di autolesionismo cosmico.

Nemmeno la società, che pure, va detto, la squadra in estate l’ha fatta e a gennaio l’ha anche rinforzata, è esente da responsabilità. Fabio Grosso andava sostituito dopo la batosta di Brescia, quando era chiaro che la missione non si sarebbe compiuta e su piazza era disponibile più di un’alternativa per svoltare e provare a condurla in porto. Era novembre e il tempo per correggere la rotta c’era. Lo dicemmo allora, lo ribadiamo oggi. Il progetto tecnico che stentava a decollare, è ora miseramente fallito. Chi ne ha facoltà ne prenda atto e provveda a rendere meno amaro il fiele da qui alla fine della stagione ci toccherà ingoiare. Salvare capre e cavoli è a questo punto un’impresa ardua e disperata, provarci è tuttavia quanto meno un dovere. L’idea, ambiziosa e un po’altezzosa, era quella di vincere attraverso il bel gioco. Non sono arrivate vittorie né tantomeno bel calcio. La serie B premia sempre l’operosità delle formiche, mai la futilità delle cicale. Questo Verona si presentava come un’elegante e un po’ pomposa confezione regalo. Peccato che una volta tolto il fiocco e aperta, dentro non ci fosse nulla. È arrivato il momento di metterci qualcosa. Si chiama orgoglio. E per quello non è mai troppo tardi

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