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Prandelli, Britney Spears, gli Oasis, Pecchia e quel momento della vita in cui tutto sembra possibile

La bellezza di un Verona che unì città, squadra e tifosi. La speranza che quello di oggi possa farlo ancora

Matteo Fontana

C’è un momento nella vita di ognuno di noi in cui tutto sembra possibile e qualsiasi sogno appare realizzabile. Un momento che attraversa anche un’altra vita, quella del tifoso, che è fatta di passione, di malinconia, di ansia e di amore. Ecco: l’amore è la risposta, cantava John Lennon, e aveva ragione.

 

Quel momento in cui tutto sembrava possibile, per molti di noi, per la generazione che ha avuto la fortuna di vedere da bambini lo Scudetto e il Grande Verona e l’ha sentito come uno splendido Paese dei Balocchi senza gli inganni di Lucignolo, è stato tra il 1998 e il 1999. Ballavamo alle feste al ritmo di “Believe” di Cher, scoprivamo gli ammiccamenti di Britney Spears, ci interrogavamo su che cosa avesse fatto precisamente e come Bil Clinton con Monica Lewinsky. Will Smith non era più il Principe di Bel-Air, ma uno dei Men in Black con Tommy Lee Jones. Il rock passava in mezzo ai nostri discorsi con gli Oasis e i Verve, i Radiohead ci facevano riflettere su un mondo sempre più complesso. Si iniziava a parlare di globalizzazione e, quindi, della lotta di chi ci si opponeva, il movimento no-global. In Italia cadeva il governo ulivista di Romano Prodi: il nuovo Presidente del Consiglio fu Massimo D’Alema e il suo Esecutivo diede il via libera ai decolli dei caccia della Nato che andavano a bombardare Belgrado.

 

Quel momento in cui tutto sembrava possibile era il Verona di Cesare Prandelli. Mentre pensavamo all’America così lontana, mentre Londra era improvvisamente vicina grazie ai voli low-cost, c’era quella squadra ci cui ci innamorammo tutti perdutamente. Un allenatore giovane che prima voleva vincere e soltanto dopo non perdere, un gruppo di ragazzi in cui potevamo persino identificarci. Cristian Brocchi dai sette polmoni, Gianluca Falsini che non smetteva mai di correre, il piede con il calibro di Vincenzo Italiano, l’aria da sciupafemmine di Martino Melis, il sorriso sempre aperto di Fabrizio Cammarata. E dopo c’erano - ve le ricordate? -, le gambe che si allungavano e la tecnica pura di Alfredo Aglietti, l’esperienza di un mitico corsaro dei mari della B, Totò De Vitis. Un portiere che ci faceva arrabbiare e poi esultare, Graziano Battistini (oh, che emozione il rigore che parò all’ultimo minuto a Dario Hubner, in un 2-0 con cui il Verona, era dicembre 1998, vinse a Brescia), una coppia di difensori, Giancarlo Filippini e Natale Gonnella, che si forgiò nel tempo, e un terzino destro ruspante, Paolo Foglio. Poi, Antonio Marasco, il mediano per eccellenza, un cuore grande così.

 

Già, tutto sembrava possibile. Un’unione tra squadra e città così forte, francamente, non la si è più avvertita. C’era un senso di euforia, di felicità condivisa, che è poi la ragion d’essere più profonda del calcio, che rimane lo Splendido Gioco. Il Verona di oggi ha gli stessi punti (20), in nove partite di quell’Hellas. Ha un tecnico giovane, Fabio Pecchia, che come Cesare Prandelli, quando è arrivato, era sembrato un’incognita. Certo, questo Verona è stato costruito per vincere. Quello di allora era un’idea, un’intuizione che ebbe un al tempo infallibile Giambattista Pastorello, in accordo con Rino Foschi, direttore sportivo vulcanico che, in quel periodo, per scaramanzia, andava a sistemarsi i capelli (non ne aveva molti…) il mattino delle partite in casa dell’Hellas in una bottega da barbiere nel rione di San Zeno. Ognuno al posto giusto, con una tifoseria cementata e trascinante.

 

Potrà essere ancora così? Mi viene alla mente la risposta che dà Jake Barnes a Lady Brett Ashley, alla fine di “Fiesta”, il romanzo di Ernest Hemingway che più amo: «“Sì”, dissi io. “Non è bello pensarlo?”».

 

 

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