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Quel giorno a Bergamo, i tifosi: “Furono lacrime di gioia: non smetteremo mai di festeggiare lo Scudetto”

Viaggio tra i cuori gialloblù. Il "Matte": "Il momento più bello della mia vita". Italia: "Realizzato il sogno che avevo da bambino"

Lorenzo Fabiano

Sarebbe piaciuta a Pierpaolo Pasolini e alla sua visione sacrale del calcio.

È il 12 maggio del 1985, allo Stadio Azzurri d’Italia di Bergamo scorrono gli ultimi minuti di Atalanta-Verona: sotto la pioggia un uomo si erge in piedi sulle reti di recinzione che separano il campo da gioco dalla curva dove sono assiepati a migliaia i tifosi gialloblù in delirio: spalle al campo, si rivolge a loro come un predicatore soul: «Datemi un Veee-rooo-naaa! Verona! Verona!» grida e il boato esplode.

Più che un’immagine, quella è rimasta un’icona: «Il momento più bello della mia vita, sembravo un sacerdote officiante» ricorda Moreno Matteoni, o meglio «Il Matte», anima dipinta di gialloblù, uno che il Verona lo ha cominciato a seguire quando aveva sei anni col Calcio Club di San Nazaro nel cuore di Veronetta. «Io quel pomeriggio piansi – ricorda «Il Matte» – pensando agli amici che non c’erano più, a tutto quello che avevamo condiviso, perché la nostra tifoseria è prima di tutto una comunità». «Era un calcio sano, non a caso c’era quell’anno il sorteggio arbitrale, - prosegue – che puntualmente tolsero di mezzo l’anno dopo, perché un secondo “caso Verona” sarebbe stato oggettivamente troppo per il Palazzo.

«Un altro mondo, che con l’avvento dei diritti televisivi si son fiondati i manager rampanti a prenderselo.  Quella del Verona, fu la meravigliosa cavalcata di una squadra che giocava meglio di tutte le altre. Fu premiata la serietà di una società sana, di un presidente come Tino Guidotti che era l’erede diretto di Saverio Garonzi, di un gruppo di giocatori che prima di tutto erano uomini veri e di un allenatore come Osvaldo Bagnoli che era avanti anni luce. Smise di allenare giovane quando capì che il calcio era cambiato e non gli apparteneva più». Lui si chiama Doriano Recchia, 67 anni fra pochi giorni, ma tutti lo chiamano Italia perchè non c’è angolo dello Stivale dove non abbia seguito il Verona: «Purtroppo non conosciamo esattamente il giorno in cui fu fondato il Verona, ma conosciamo bene la data in cui vinse lo scudetto. Lo sto ancora festeggiando dopo 35 anni; la mia è stata una generazione fortunata e vivere anni come quelli» spiega. «Si realizzò il mio sogno da bambino; i miracoli nel calcio succedono, ma quel miracolo fu programmato almeno due anni prima. Dal 1929, anno in cui nacque il girone unico, solo 12 squadre hanno vinto lo scudetto, e noi siamo una di quelle, l’unica vera provinciale».

Ai 12 Apostoli, nel cuore di Verona di Giorgio Gioco, squadra e società al completo celebrarono la cena ufficiale del tricolore: «C’erano tutti, Elkjaer e Briegel al tavolo 31 – rammenta Antonio Gioco -, Gigi Sacchetti con la farfallina gialloblù. Papà disegnò il menù con lo scudetto: per dolce servimmo una torta millefoglie con un fiocco di zucchero gialloblù. Fuori c’era il mondo, con gente arrampicata alle inferriate delle finestre». «Il Verona era di casa qui da noi – racconta Antonio – Bagnoli e Brera s’incontravano tutte le settimane al tavolo di Giulietta proprio sotto i versi di Berto Barbarani.  Il Verona fu la Cenerentola che mise sotto scacco le regine del ballo. Mi vengono i brividi a risentire la voce di Roberto Puliero al gol di Elkjaer a Bergamo. Fu un grido liberatorio».

"A day in life”  avrebbero cantato i Beatles.

 

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