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Questa è la casa dell’Hellas Verona

Il Bentegodi è il luogo perfetto per vincere. Con l'unione di tutti: divisi si perde

Matteo Fontana

“Questa è la casa dell’Hellas Verona!”, gridò il grande Roberto Puliero prima dell’annuncio della formazione in campo. Era il 18 novembre del 2001 e stava per iniziare una delle più elettrizzanti partite della storia gialloblù, quella vinta per 3-2 in rimonta con il Chievo, nel primo derby in Serie A.

Il clima era ribollente e, nonostante l’acqua scrosciante, pareva di stare alla “Bombonera” o alla “Caldera del Diablo”, sulfurei templi d’Argentina. Altro contesto, altro momento, certo. Ma resta un dato di fatto: il Verona ha sempre avuto nel Bentegodi, nella propria gente, il maggiore alleato. Questo, sia in ambito agonistico che “diplomatico”. Chi, se non il popolo del Verona, diede la spinta decisiva a far saltare il progetto, già definito, per la fusione con il Chievo, basato su un accordo in essere tra Giovanni Martinelli e Luca Campedelli? E gli esempi potrebbe essere molteplici, ma è martedì mattina, mentre scriviamo, e il pari con l’Ascoli non ha condotto a sonni agevoli.

Ieri l’impressione forte è stata che tra tifoseria, squadra e allenatore si sia scavato un solco. Non sono mancati fischi preventivi e proteste a ogni pallone calciato male. Non è affar nostro entrare nel merito dell’emotività dell’aficionado, che vive di pancia ed ha il pieno e indiscusso diritto di mostrarsi contento o scontento nei confronti di chi rappresenta i colori cui è legato. E non è affar nostro soffermarsi sulle dichiarazioni di Marco Fossati, che si è lamentato per l’eccessiva pressione che arriva dalla piazza.

Affar nostro, piuttosto, è constatare che il Verona ha sempre tratto dal proprio pubblico, anche nelle fasi più difficili della propria epopea, il supporto che non riusciva a ricavare, vuoi per carenze tecniche, vuoi per mancanze caratteriali, vuoi per ambedue questi aspetti assieme, dalle qualità dei giocatori e della guida in panchina. Gianfranco Zigoni, che del Bentegodi è stato un idolo, ci raccontava: “Avremmo potuto fare anche di più, quando giocavo io. Ma vedete, in trasferta pativamo la distanza rispetto a quanto ricevevamo in casa. Di fronte ai nostri tifosi, che ci sostenevano sempre e comunque, diventavamo dei leoni. Potevamo battere chiunque”.

Nel 1997, da abbonato in Curva Sud, lo scrivente seguì una partita con il Cagliari. Era l’inizio del campionato di Serie B. L’Hellas era appena sceso al termine di una nefasta permanenza in A e ad allenarlo c’era Gigi Cagni, uno che a Verona non è stato certo amato. Nel primo tempo il portiere gialloblù, Graziano Battistini, pasticciò su un rilancio con i piedi e Dario Silva, punta del Cagliari, fece gol. Piovvero tombolate di fischi. Uno dei leader della tifoseria sbottò, in dialetto schietto: “No gh’emo dito su gnanca a Volpecina! Semo qua per tifar Verona!”. Balzo in avanti nel tempo. Nel 2011 Nicola Ferrari era uno dei calciatori più invisi al pubblico. Prima di una gara con il Gubbio, in Lega Pro, venne fischiato quando risultò che era stato schierato titolare dall’allora tecnico Andrea Mandorlini. Nessuno lo voleva, neanche fosse stato Calimero.

Nel 1998-99 l’Hellas, guidato da Cesare Prandelli, con Graziano Battistini, fu promosso trionfalmente in Serie A. Pochi mesi dopo quella partita con il Gubbio fu Ferrari il simbolo di una mitica promozione in B, a suon di gol ed emozioni incancellabili. Tutt’ora è l’icona di un riscatto, di un modo di essere. Di Verona. Quella dei padri che raccontano ai figli, degli anziani che ai più giovani spiegano dei tempi di Iseo Lodi, di Pirovano, del “Pita” Lonardi e di Caldana, oppure di Tomiet, Ciceri, Postiglione e “Penel” Maioli. Del Verona del “vecio” Bentegodi e di quello che, dal 1963, è la casa gialloblù.

E ci si perdoni l’irriverenza, ma serve ricordare quanto riporta il Vangelo secondo Marco (absit iniuria: non Fossati): “Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi”. L’educazione cattolica ricevuta ci induce a crederci.

 

 

 

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