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TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULL’HELLAS (E NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE), TERZA PARTE

Il "romanzo" degli anni bui dell'Hellas: dalla strategia della fusione alla salvezza di Busto Arsizio

Redazione Hellas1903

Al Chievo lo sapevano tutti. La confidenza emerse

per la prima volta nell’entourage di Luca Campedelli, durante la trasferta di Rimini, a marzo 2008.

In via Galvani vedevano avvicinarsi una promozione in carrozza in serie A, dopo

un solo anno di purgatorio. Al presidente avevano offerto il Verona. Ma non

avrebbe dovuto lasciare il club della Diga, che conduceva da più di quindici

anni, dopo aver raccolto il testimone dal padre Luigi, improvvisamente

scomparso. Sarebbe rimasto il Chievo, ci sarebbe stata un’unione con l’Hellas.

La fusione, appunto.

 

Voluta dai cosiddetti poteri forti di Verona.  Alta finanza e politica. L’imprenditoria

più influente, che a quelle fonti si abbeverava e con cui c’erano i più stretti

rapporti d’affari. Gli stessi circoli che sognavano una squadra unica in città,

che unisse il seguito dell’Hellas con la buona reputazione nazionale e

l’accorta capacità di gestione del Chievo. Calcio in laboratorio, già, ma business is business, baby. D’altronde

il Verona era sul punto di sparire. La retrocessione in C2 era in agguato,

Piero Arvedi non aveva più linee di credito. Sarebbe finito l’Hellas, sarebbe

nato qualcos’altro. In A, con i soldi delle televisioni e soprattutto con il

progetto di uno stadio nuovo e con tutto quello che sarebbe sorto sull’area di

quello vecchio.

 Un passo per volta. Già, intanto c’è da capire che

cosa fosse accaduto tra l’autunno e l’inverno, a cavallo tra il 2007 e il 2008.

Arvedi aveva chiuso la vendita del Verona a un sedicente gruppo lombardo. Aveva

già anticipato la cessione, in attesa di formalizzarla, senza rivelare i nomi

degli acquirenti. Unico indizio, la voce con accento bresciano del presunto

nuovo padrone dell’Hellas, che Arvedi passò al telefono a un caporedattore di

un giornale locale dopo una cena. Ne venne fuori una specie di detective story

in cui ogni organo di stampa, al pari di ogni chiacchierone da bar, avanzò

teorie sulla natura dei compratori. La maschera cadde a fine novembre: il

Verona passava nelle mani di tal Giovambattista Lancini. Chi era costui? Titolare

di alcune ditte svuotate di qualsiasi valore, si scoprì subito, immobiliari

sconosciute, idee appannate. Quando la sua precaria affidabilità emerse, per

giorni non rispose al telefono. Una sera chi scrive queste pagine ricevette un

lungo sms in cui Lancini diceva di essersi assentato per sistemare delle

questioni tecniche, che la trattativa non era conclusa ma che si sarebbe fatto

vivo nelle settimane successive.

E si fece vivo sì, Lancini. In particolare quando fu

arrestato per truffa e trasferito in carcere. Aveva già messo in pratica con

altri quel che era stato il piano con cui aveva tentato di raggirare Arvedi. Il

conte nel frattempo aveva assegnato la direzione sportive dell’Hellas a

Giovanni Galli, un monumento del calcio italiano che, da dirigente, non aveva

avuto le fortune che gli erano appartenute da giocatore. A metà dicembre la

presentazione, con successivo cambio in panchina: via Pellegrini, okay a

Maurizio Sarri, allenatore che veste sempre di nero e che è noto per la

maniacalità sugli schemi da palla ferma. A restare fermo sarà il Verona, con

lui: un pareggio e cinque sconfitte, con una squadra rigirata come un guanto

tra acquisti e cessioni, a gennaio. Al ritorno dall’ennesima batosta, un 2-0

subito fuori casa con la Ternana, il conte parla con l’addetto stampa Simone

Puliafito. E, oltre a far intendere che un altro esonero è prossimo, racconta

anche di un fatto che si raccomanda non venga divulgato: Lancini ha orchestrato

la chiusura dell’acquisto dell’Hellas con cinque milioni di euro in contanti.

Danaro che, aperta la borsa in cui era contenuto, Arvedi subito aveva

riscontrato essere falso. Nella messinscena era stato coinvolto perfino un

finto cardinale, che avrebbe dovuto avallare la veridicità dell’operazione e

che porse al conte l’anello da porporato. Ricordò Arvedi poco tempo dopo con il

suo inconfondibile tono: “E mi ghe l’ho

anca basà a quel porco”. Con l’intervento della Guardia di Finanza e dei

Carabinieri salta tutto e di lì ad alcune settimane Lancini sarà tradotto

dietro le sbarre. Mentre Arvedi, l’episodio dei soldi falsi, lo svelerà alla

prima occasione utile: ovvero nel giorno in cui, dopo aver silurato Sarri e

aver ricevuto le dimissioni di Galli, riporta in panchina Davide Pellegrini. Ma,

alle porte di Corte Pancaldo, già spunta un’altra figura decisiva per questa

storia: è Nardino Previdi.

 

Previdi entra negli uffici dell’Hellas il 10 marzo

2008. Il Verona ha appena vinto per 1-0 con il Foggia, è solo il terzo successo

in campionato. Accetta l’incarico, Previdi, su invito di Riccardo

Prisciantelli, suo scudiero, e con Arvedi che gli dà carta bianca purché

raggiunga la salvezza con l’Hellas, di cui peraltro già è stato dirigente in

carica con la proprietà Mazzi, tra il 1993 e il 1997. Nelle stanze del potere

le manovre all’interno del Verona sono monitorate con attenzione e con un filo

di ansia. Se i gialloblù dovessero restare in C1 sarebbe meno probabile

riuscire a far passare il progetto della fusione come ineluttabile. Anche se

c’è sempre un’altra via, un piano B che è rinchiuso in un cassetto e che può

essere estratto all’occorrenza.

 

E ne avranno 

bisogno, i teorici della “strategia della squadra unica”, di quel piano

B. L’Hellas, dopo una rimonta impetuosa, accede ai playout e si gioca tutto con

la Pro Patria. Vince per 1-0 al Bentegodi, con un gol di Morante in pieno

recupero, e quando Ilyas Zeytualev, al 90’, a Busto Arsizio, pareggia il

vantaggio di Negrini per l’1-1 finale, esplode un senso di liberazione. Il

Verona esiste ancora, è tutto da rifare ma esiste ancora. Ma chi muove le leve

dell’economia in città ha parecchie carte nel taschino. A giugno 2008 parte

un’altra sfida, e sarà uno showdown

in piena regola, con un attore non protagonista inedito che si chiama Giovanni

Martinelli e che viene individuato come l’uomo giusto per far collimare tutte

le tessere del mosaico.

 (3. Continua)Matteo Fontana

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