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Al Chievo lo sapevano tutti. La confidenza emerse
per la prima volta nell’entourage di Luca Campedelli, durante la trasferta di Rimini, a marzo 2008.
In via Galvani vedevano avvicinarsi una promozione in carrozza in serie A, dopo
un solo anno di purgatorio. Al presidente avevano offerto il Verona. Ma non
avrebbe dovuto lasciare il club della Diga, che conduceva da più di quindici
anni, dopo aver raccolto il testimone dal padre Luigi, improvvisamente
scomparso. Sarebbe rimasto il Chievo, ci sarebbe stata un’unione con l’Hellas.
La fusione, appunto.
Voluta dai cosiddetti poteri forti di Verona. Alta finanza e politica. L’imprenditoria
più influente, che a quelle fonti si abbeverava e con cui c’erano i più stretti
rapporti d’affari. Gli stessi circoli che sognavano una squadra unica in città,
che unisse il seguito dell’Hellas con la buona reputazione nazionale e
l’accorta capacità di gestione del Chievo. Calcio in laboratorio, già, ma business is business, baby. D’altronde
il Verona era sul punto di sparire. La retrocessione in C2 era in agguato,
Piero Arvedi non aveva più linee di credito. Sarebbe finito l’Hellas, sarebbe
nato qualcos’altro. In A, con i soldi delle televisioni e soprattutto con il
progetto di uno stadio nuovo e con tutto quello che sarebbe sorto sull’area di
quello vecchio.
Un passo per volta. Già, intanto c’è da capire che
cosa fosse accaduto tra l’autunno e l’inverno, a cavallo tra il 2007 e il 2008.
Arvedi aveva chiuso la vendita del Verona a un sedicente gruppo lombardo. Aveva
già anticipato la cessione, in attesa di formalizzarla, senza rivelare i nomi
degli acquirenti. Unico indizio, la voce con accento bresciano del presunto
nuovo padrone dell’Hellas, che Arvedi passò al telefono a un caporedattore di
un giornale locale dopo una cena. Ne venne fuori una specie di detective story
in cui ogni organo di stampa, al pari di ogni chiacchierone da bar, avanzò
teorie sulla natura dei compratori. La maschera cadde a fine novembre: il
Verona passava nelle mani di tal Giovambattista Lancini. Chi era costui? Titolare
di alcune ditte svuotate di qualsiasi valore, si scoprì subito, immobiliari
sconosciute, idee appannate. Quando la sua precaria affidabilità emerse, per
giorni non rispose al telefono. Una sera chi scrive queste pagine ricevette un
lungo sms in cui Lancini diceva di essersi assentato per sistemare delle
questioni tecniche, che la trattativa non era conclusa ma che si sarebbe fatto
vivo nelle settimane successive.
E si fece vivo sì, Lancini. In particolare quando fu
arrestato per truffa e trasferito in carcere. Aveva già messo in pratica con
altri quel che era stato il piano con cui aveva tentato di raggirare Arvedi. Il
conte nel frattempo aveva assegnato la direzione sportive dell’Hellas a
Giovanni Galli, un monumento del calcio italiano che, da dirigente, non aveva
avuto le fortune che gli erano appartenute da giocatore. A metà dicembre la
presentazione, con successivo cambio in panchina: via Pellegrini, okay a
Maurizio Sarri, allenatore che veste sempre di nero e che è noto per la
maniacalità sugli schemi da palla ferma. A restare fermo sarà il Verona, con
lui: un pareggio e cinque sconfitte, con una squadra rigirata come un guanto
tra acquisti e cessioni, a gennaio. Al ritorno dall’ennesima batosta, un 2-0
subito fuori casa con la Ternana, il conte parla con l’addetto stampa Simone
Puliafito. E, oltre a far intendere che un altro esonero è prossimo, racconta
anche di un fatto che si raccomanda non venga divulgato: Lancini ha orchestrato
la chiusura dell’acquisto dell’Hellas con cinque milioni di euro in contanti.
Danaro che, aperta la borsa in cui era contenuto, Arvedi subito aveva
riscontrato essere falso. Nella messinscena era stato coinvolto perfino un
finto cardinale, che avrebbe dovuto avallare la veridicità dell’operazione e
che porse al conte l’anello da porporato. Ricordò Arvedi poco tempo dopo con il
suo inconfondibile tono: “E mi ghe l’ho
anca basà a quel porco”. Con l’intervento della Guardia di Finanza e dei
Carabinieri salta tutto e di lì ad alcune settimane Lancini sarà tradotto
dietro le sbarre. Mentre Arvedi, l’episodio dei soldi falsi, lo svelerà alla
prima occasione utile: ovvero nel giorno in cui, dopo aver silurato Sarri e
aver ricevuto le dimissioni di Galli, riporta in panchina Davide Pellegrini. Ma,
alle porte di Corte Pancaldo, già spunta un’altra figura decisiva per questa
storia: è Nardino Previdi.
Previdi entra negli uffici dell’Hellas il 10 marzo
2008. Il Verona ha appena vinto per 1-0 con il Foggia, è solo il terzo successo
in campionato. Accetta l’incarico, Previdi, su invito di Riccardo
Prisciantelli, suo scudiero, e con Arvedi che gli dà carta bianca purché
raggiunga la salvezza con l’Hellas, di cui peraltro già è stato dirigente in
carica con la proprietà Mazzi, tra il 1993 e il 1997. Nelle stanze del potere
le manovre all’interno del Verona sono monitorate con attenzione e con un filo
di ansia. Se i gialloblù dovessero restare in C1 sarebbe meno probabile
riuscire a far passare il progetto della fusione come ineluttabile. Anche se
c’è sempre un’altra via, un piano B che è rinchiuso in un cassetto e che può
essere estratto all’occorrenza.
E ne avranno
bisogno, i teorici della “strategia della squadra unica”, di quel piano
B. L’Hellas, dopo una rimonta impetuosa, accede ai playout e si gioca tutto con
la Pro Patria. Vince per 1-0 al Bentegodi, con un gol di Morante in pieno
recupero, e quando Ilyas Zeytualev, al 90’, a Busto Arsizio, pareggia il
vantaggio di Negrini per l’1-1 finale, esplode un senso di liberazione. Il
Verona esiste ancora, è tutto da rifare ma esiste ancora. Ma chi muove le leve
dell’economia in città ha parecchie carte nel taschino. A giugno 2008 parte
un’altra sfida, e sarà uno showdown
in piena regola, con un attore non protagonista inedito che si chiama Giovanni
Martinelli e che viene individuato come l’uomo giusto per far collimare tutte
le tessere del mosaico.
(3. Continua)Matteo Fontana
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