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Com’è triste Venezia

Il pari del Penzo fa capire, ancora una volta, che questo Verona deve fare molto di più

Lorenzo Fabiano

«Com’è triste Venezia», cantava l’istrione armeno. E in effetti non è che lo spettacolo offerto sotto il nubifragio di Sant’Elena ci abbia ispirato chissà quali slanci di buonumore, anzi. Si poteva vincere? Sì, ma dobbiamo in tutta onestà riconoscere che è pur vero il contrario. Il pareggio che ne è uscito, è legittimo e, al di là delle scontate parole dei protagonisti, semina più mugugni che altro.

Mettiamola così: per un’ora si è vista una squadra giocare bene a calcio con organizzazione, geometria, e qualità tecnica. L’altra, quella dei peones di casa, al massimo ruminava.  Purtroppo al saldo del conto manca una mezz’ora. Ecco allora che nella ripresa al Verona è scesa la catena ed è stato messo alle corde dai ruminanti di Zenga che alla fine il loro punticino se lo sono guadagnato con fatica e sudore. Potevamo chiuderla nel primo tempo, quando non sono mancate le opportunità per rendere la bagnata trasferta a Venezia una piacevole gitarella in gondola tra una sosta ai banconi di un bacaro e l’altro. E invece per poco non siamo finiti sott’acqua proprio noi. Sarebbe stato oggettivamente troppo.

A mente fredda emerge una questione che è un po’ il filo conduttore che il Verona di Fabio Grosso ha mostrato finora. Fuor di dubbio che la squadra sia forte e abbia qualità. Sta bene in campo, gioca bene, mostra trame piacevoli, e si muove all’interno di rombi, trapezi e triangoli isosceli come nei corridoi di casa propria. Il problema è che secondo la nostra visione delle cose di pallone, il calcio è qualcosa che va oltre le geometrie ed entra in un alveo misterioso e non ben precisato che lo rende il gioco più affascinate al mondo. E meno male, sai che noia altrimenti… Quando la partita esce dai tratti precisi delle linee euclidee, il Verona va in sofferenza e si smarrisce, Era già successo, ed è successo anche nel secondo tempo in  laguna.

Lo ripetiamo sino allo sfinimento: giocar bene va benissimo per carità, ma vincere va ancora meglio. Massimo Catalano ci sarebbe andato a nozze con un motivetto simile.  Eppure è proprio così. Se c’è una cosa che ci sentiamo d’imputare a questa squadra è la mancanza di cattiveria e cinismo nei momenti cruciali. Siamo belli come il sole, ma nel fango sotto il diluvio sarebbe il caso di sporcarsi e imbastardirsi un po’. Ecco, diciamo pure che perlomeno non guasterebbe. Le partite vivono di sussulti, non solo di schemi e geometrica organizzazione. Spesso vince chi in campo fa del casino organizzato la propria bandiera. Diversamente, Euclide e Pitagora avrebbero vinto il pallone d’oro ben prima di Johan Cruijff e Michel Platini. Dopo otto giornate, abbiamo tre punti in meno di quanti ne mise insieme Fabio Pecchia due anni fa (e per di più senza vittorie a tavolino).

È ancora presto ma ci si aspettava di più, diciamolo francamente. Il Pescara di Bepi Pillon (giusto per non essere smentiti, la sorpresa in serie B non manca mai)  se ne va in fuga,  il Palermo prende quota, in testa il plotone corre e si fa sotto. Noi siamo lì, ma in tre partite abbiamo racimolato la miseria di un solo punto: quanto meno una brusca frenata. Sabato contro il Perugia, non rimane che fare una cosa: parlare poco alla vigilia, in campo correre, tirare qualche sana pedata, e soprattutto vincere. Magari anche con un contropiede galeotto al ’90, aggiungiamo. Perché no, in fondo da nessuna parte sta scritto che sia qualcosa per cui si debba per forza arrossire.

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