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Vent’anni dopo: ciao “Giulio”

Si è spento nel 1996, ma il ricordo di Giuliano Giuliani, portiere di un grande Verona, resta forte

Matteo Fontana

Sono passati vent’anni. L’ultima volta al Bentegodi lo si era visto a giugno 1993, nella serata dell’omaggio a Piero Fanna per il suo addio al calcio. Una grande festa gialloblù, con più di 20000 tifosi allo stadio. Era parso stanco, “Giulio”, ma nessuno poteva immaginare che cosa lo stesse divorando.

Un male orribile. Soltanto a pronunciarne il nome si rabbrividiva, perché se ne conoscevano gli inevitabili esiti e perché il modo in cui se ne era stati colpiti era coperto da un alone di torbida, morbosa ossessività.

Due giorni fa, nel 1996. Il 14 novembre morì a Bologna Giuliano Giuliani. La sua è la storia di un portiere con gli occhi malinconici. Li rivedi luminosi, in un pomeriggio del 1987, quando si tuffò, sotto la Curva Sud, a parare un rigore a Diego Armando Maradona. Il boato che salì, lui abbracciato a Roberto Tricella e Gigi De Agostini. La felicità di un sogno, il 3-0 del Verona al Napoli prossimo al suo primo scudetto, l’Hellas a un passo dalla qualificazione alla Coppa Uefa, poi sancita, poche settimane dopo, con uno 0-0 a San Siro con l’Inter.

Ci fu, in quella stagione gialloblù, tanto di “Giulio”. Ne parò un altro, di rigore: a Roberto Pruzzo, quando sbarrò la porta del Verona all’Olimpico contro la Roma. Dopo Garellik, Claudio Garella, che sullo stesso campo aveva preso il possibile e l’impossibile, nel 1984, ecco Giulianik. E pensare che per un anno era stato sommerso di critiche. Mica sbagliate, eh. Veniva dopo Garella, Giuliani, e il suo campionato fu pieno di svarioni. Ebbe pure la sfortuna di beccare “quel” gol da Maradona: pallonetto appena dopo metà campo, San Paolo in delirio.

Non si abbatté, “Giulio”. Osvaldo Bagnoli aveva fiducia in questo ragazzo che aveva perso entrambi i genitori e che era stato cresciuto dalla nonna. Aveva i demoni dentro. I fantasmi delle paure mai cancellate. Tenebroso, il profilo da attore, un po’ Richard Gere: il portiere gentiluomo. Ad Arezzo, ricorda l’amico toscano Andrea Avato, era emerso il suo talento. Al Como si affermò in Serie A. Da lì lo prelevò il Verona campione d’Italia.

Non è questo il luogo per soffermarsi su quanto avvenne a “Giulio”, dire del come e quando contrasse il terribile virus che ne distrusse il fisico fino a ucciderlo. Lo ricordiamo a Brema, uno degli Eroi che spinsero il Verona sul filo di una rimonta leggendaria con il Werder, ritorno dei quarti di finale di Coppa Uefa, 16 marzo 1988. Nel fango, sotto la pioggia, l’assalto tedesco, l’Hellas senza lo squalificato Elkjaer e battuto per 1-0 all’andata per una capocciata del “lungo” Neubarth. Brema, la pioggia, il fango, migliaia e migliaia di veronesi a spingere una squadra. Il canto del cigno di un mito, quello del grande Hellas d’Europa.

C’era, “Giulio”. Gli segnò con un tiro sbilenco Sauer. Dopo l’intervallo, il Verona andò all’assalto. Una traversa colta da Beppe Iachini, il pari di Giuseppe Volpecina. Non ci voleva tanto, soltanto un altro gol. Non arrivò mai.

Giuliano Giuliani ha vissuto così, come il Verona di Brema: soffrendo, lottando, sbagliando, lottando ancora. Perdendo senza perdere. Si è preso il cuore di chiunque l’abbia visto. L’amore non è un’ora che va e finisce.

Ancora ciao, “Giulio”.

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