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AUGURI ZIGO!

I 70 anni di una leggenda gialloblù: "Il mio Paradiso? Io al Bentegodi con la maglia del Verona"

Redazione Hellas1903

Compie 70 anni Gianfranco Zigoni, oggi.

Il leggendario attaccante gialloblù si racconta al Corriere di Verona in edicola in una lunga intervista che riportiamo per intero.

Volarono anni corti come i giorni: “Sai che non me ne rendo neanche conto? Mi dà pure fastidio. Finché hai il 6 davanti  è una cosa, ma quando scatta il 7… Beh, si fa più dura”. Incorreggibile, inimitabile Zigo. Oggi ne compie 70. Festeggia a Oderzo, il borgo natio selvaggio: “Vengo dal Bronx”, dice lui. Gianfranco Zigoni, uomo di campagna, lui che ha amato le città. Torino, Genova, Roma. Soprattutto Verona, con cui, ricorda, “fu amore a prima vista. Appena arrivato, l’attraversammo in macchina con Guido Tavellin per andare a mangiare in una trattoria in Valpolicella. Guardavo il panorama e pensavo: “Dove sono? Ma questo è il Paradiso?” Sì, lo era”.

Zigo, raggiunge un traguardo importante. Come si sente?

“Vedi, l’età non conta. Io sono un eterno giovane. Sono sempre stato un bambino. Lo ero in campo, e allo stesso modo lo sono fuori. Essere dei bambini, già: questo è il segreto”.

E lei è un bambino con dei rimpianti?

“Soltanto i bugiardi possono sostenere di aver fatto, nella vita, tutto quello che si aspettavano, che desideravano. Ma io sono felice di me stesso. Certo, magari, da giocatore, avrei voluto essere meno pigro, meno svogliato. La gente mi amava, non sempre l’ho saputa ricambiare. Però questo accadeva proprio perché ero un bambino: se mi andava, le partite le facevo vincere da solo. Altrimenti, lasciamo stare”.

A Verona, tutto sommato, le vogliono ancora bene esattamente per questo suo modo di essere…

“E pensare che quando la Roma mi cedette io stetti male. Perché non la conoscevo, Verona. Perché era una società meno ambiziosa. Invece poi è stata il mio alfa e il mio omega. Ci sarei rimasto a vivere, ma sai, a fine carriera mi chiamò l’Opitergina. Facevo 20 metri, fuori di casa, ed ero al campo. Con me c’era anche un vecchio amico come Renato Faloppa. Così mi sono fermato qua”.

La sua terra. Quella in cui è cresciuto.

“Già, imparando i valori che mi hanno trasmesso i miei genitori. Mio papà, Francesco, lavorava in un oleificio. Mia mamma, Stefania, tirava su i figli. Eravamo in nove. Purtroppo uno dei miei fratelli non l’ho conosciuto: è morto prima che nascessi. Si chiamava Gianfranco. Quando venni alla luce mi diedero il suo stesso nome”.

Valori, diceva, Zigo. Quali in particolare?

“Il rispetto per l’amicizia, il legame con gli affetti, con le proprie radici. Un rapporto non ossessivo con il danaro, che serve per mantenersi, ma non per esibirsi, per cercare la ricchezza. L’insegnamento più bello lo ricevetti da mia madre”.

Racconti.

“Appena passato nelle giovanili della Juventus, ricevevo 15000 lire al mese. Dopo quattro mesi tornai a casa. Di 60000, ne avevo conservate 45000. Le consegnati alla mia famiglia. Ma quando tornai a Torino, sul libretto di risparmio che avevo, e che gestiva mia mamma, ne trovai 50000. Da me non voleva nulla. Anzi, aggiunse 5000 lire a quel che le avevo dato. Viveva per noi, per i suoi figli”.

Torino, la Juve. L’inizio della sua carriera…

“Ma era tutto troppo grande per me. Chiaro, giù il cappello di fronte a un club del genere. Ma io ero uno che veniva dalla strada e davanti avevo gli Agnelli. Mi toccava tenere i capelli corti. Lo stile Juve, sì. Non ci stavo bene”.

Al contrario, ai tempi della Roma, c’è una sua figurina, sull’album Panini, con la barba lunga.

“Altra storia. Roma è stato un mondo meraviglioso per me. Quanto al look, mi tenevo così perché in quel periodo avevo cominciato a studiare Ernesto Guevara, il Che. I barbudos erano la mia bussola”.

Il Che il suo mito, dunque. E poi?

“Attenzione: non mi riferisco alla politica. Quella è un’altra cosa. Ma per me lui è stato un gigante della storia. Lo dico a ragion veduta. Ne ho parlato a lungo con Paco Ignacio Taibo II, lo scrittore messicano che è stato il suo più grande biografo, e che ho conosciuto a Treviso. Sto con il Che e con Gesù Cristo. Sono due immortali”.

Zigo, lei crede in Dio?

“Vado in chiesa e prego. Gli chiedo pace e serenità per i più piccoli. La salute per i bambini di tutto il mondo. Vedi, mi annoio a parlare sempre di calcio. Sentire i dibattiti su chi sia stato più forte tra Pelè e Maradona. Non mi importa. Avrei potuto essere io il migliore di tutti, se avessi voluto. Ma i campioni, gli eroi, sono altri. I missionari, i medici che curano gli ammalati e non chiedono niente in cambio”.

Cosa la fa stare bene?

“L’abbraccio dei miei cari. Mia moglie Doretta. I miei quattro figli: Barbara, Cristiana, Gianmarco e Christian. Il sorriso dei miei nipoti, Angelo, Francesco. E Tommaso, che ha un anno e mezzo e, ne sono sicuro, diventerà un difensore centrale bravissimo, e giocherà nel Verona”.

Non ha mai paura di quel che ci sarà dopo la vita?

“Non mi spaventa la morte. In realtà, lo sai, è qualcosa che non esiste. Non ci sei, ma ci sei ancora. Non sparisci, rimani sempre: è soltanto un intervallo, un momento”.

Ma lei, l’Aldilà, come se lo immagina?

“Ci sono io che corro sulla fascia sinistra del Bentegodi. Ho la maglia gialloblù addosso, la 11 del Verona. I tifosi che cantano, che mi incitano, che mi invocano: “Zigo! Zigo!”, urlano. E io tiro e faccio gol per loro. Non può esistere un posto più bello di questo”.

 

MATTEO FONTANA

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