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Chiamatelo derby

I motivi per cui il confronto tra Verona e Chievo è una sfida unica

Matteo Fontana

E derby fu. Va chiamata con il nome che le spetta, questa partita. L’Hellas e il Chievo, vite distanti ma che, dal 1994 in avanti, hanno viaggiato in parallelo. Le espressioni che arrivano da sempre dal popolo del Verona sul confronto con la squadra della Diga sono note, e francamente, ormai, pure fuori moda: “Il derby è con il Vicenza”. Oppure: “Giochiamo contro Nessuno”, rigorosamente con la “N” maiuscola, in questo caso.

Eppure è derby vero, derby verissimo, e dopo tutti questi anni c’è chi dovrebbe farsene una ragione, tralasciando il folclore e gli sfottò tra tifosi, supporto tanto più necessario in una stracittadina. Verona-Chievo (o Chievo-Verona, come preferite) derby lo è per almeno cinque motivi.

  • LA GEOGRAFIA Banalmente, il territorio di confronto è il medesimo. Questo è l’aspetto più ovvio. Che il Chievo sia un quartiere di Verona non cambia alcunché: essere una parte non significa che non si possa essere all’interno del tutto. Quindi, ce la si metta via, a meno che non si voglia cambiare il mappamondo e collocare anche Boscomantico nelle vicinanze di Oslo.
  • LA STORIA Damiano Tommasi, intervistato qualche settimana fa dal “Corriere di Verona”, ha detto: “Il Verona ha paura del presente del Chievo e il Chievo ha paura del passato del Verona”. La rivalità è cresciuta attraverso gli opposti. I derby maggiori, quelli metropolitani, sono contrassegnati – o così era in origine, fino all’appiattimento dettato dal calcio globale – da differenze sociali, economiche, ideologiche (il Torino degli operai, la Juventus della Fiat. Il Milan proletario, l’Inter borghese). Quello di Verona è determinato da un divario siglato dalla storia dei due club.
  • LE EMOZIONI Ogni tifoso del Verona porta nel cuore il 3-2 in rimonta del primo derby in Serie A. Chi ha vissuto quella sera di novembre del 2001 al Bentegodi farebbe torto a se stesso a negarne l’unicità. E ogni tifoso del Chievo non potrà mai dimenticare il derby vinto con il gol di Lazarevic all’ultimo secondo, nel 2013. La “finta trasferta” della Curva Sud nel 1995 per arrivare al Bentegodi, Marco Baroni che palleggia salvando sulla linea un gol certo, la rete di Luca Toni in uno stadio disertato dalla larga parte della tifoseria dell’Hellas per protestare contro il “caro-prezzi” del Chievo. Sulla sponda altrui, la doppietta di Federico Cossato per il ribaltone del 2002, la rete decisiva di Paloschi in fuorigioco, e per questo ancora più gradita nella sua perfidia. Il derby è comunque un’emozione diversa.
  • I NUMERI Il Chievo è diventato un solido club di Serie A. Questo è un fatto dettato dai numeri: dal 2001, un percorso interrotto soltanto per una stagione, per riconquistare subito il Paradiso perduto. Spesso, negli anni, nei bar e nelle piazze di Verona, si è sentito discutere, tra tifosi dell’Hellas, sia pure masticando amaro, di quanto il Chievo sia un esempio gestionale, di quanto se ne desidererebbe avere la medesima continuità societaria e dirigenziale. Per il Chievo, invece, il derby è come leggere "Il ritratto di Dorian Gray": il Verona riesce a non invecchiare mai. E questo è un fattore che sollecita la rivalità. Che, poi, significa derby.
  • LA RESILIENZA L’affermazione del Chievo ai maggiori livelli, fino a giocarsi, in un tempo ora distante, pure il passaggio ai gironi di Champions League, senza dire di una stabilità programmatica certificata dallo sviluppo di due mirabili centri sportivi (Veronello e il Bottagisio), è stata la dimostrazione che la gente dell’Hellas ha un’innata propensione alla resilienza, concetto psicologico che indica la capacità delle persone di superare i traumi. Perché il Chievo, per il Verona, ha rappresentato un trauma. E, tutto sommato, almeno per un periodo, il mancato e irrealizzabile sorpasso morale sull’Hellas un trauma per il Chievo, a modo suo, lo è stato. Perdere un derby è una prova di resilienza. Vincerlo, invece, è bellissimo.
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