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L’abbraccio di Verona, l’Hellas è di nuovo a casa

Grande entusiasmo per il ritorno della squadra all'antistadio. La passione della città è la forza dei gialloblù

Matteo Fontana

La sensazione che si respirava nell’aria fresca del mattino di novembre era quella del ritorno a casa. Avrete sperimentato tutti quell’ebbrezza gioiosa (e giocosa) che si prova quando, dopo un viaggio, inizi a vedere le vie in cui si abita, se non quelle in cui si è cresciuti. Un misto di dolce ebbrezza, di emozioni, di empatia con le strade attorno.

La stessa cosa l’hanno provata i 500 tifosi che hanno accompagnato l’Hellas nel suo rientro all’antistadio. Ossia, in quell’impianto in cui molta parte della leggenda gialloblù è stata costruita. Lo Scudetto è stato l’acme dei trent’anni, dal 1979 al 2009, in cui il Verona si è allenato sul campo di fronte al Bentegodi. Il resto sono, insieme alle cavalcate d’Europa, vittorie e sconfitte, fuoriclasse e bidoni, feste e delusioni, esultanze e lanci di uova (sì, pure queste, dopo un 6-0 subito ad Avellino nel 2004). L’Hellas ha lasciato l’antistadio pochi mesi dopo l’acquisizione del club da parte di Giovanni Martinelli. È stato a Sandrà, ha traslocato a Peschiera del Garda. Scelte dettate dalla logistica, dall’organizzazione e dell’oggettiva inadeguatezza dell’antistadio, inservibile per questioni regolamentari.

Tutto ineccepibile se ci affidiamo alla ragione e agli aspetti normativi. Poi, però, a rimetterci è stata il cuore, inteso come connessione tra il Verona e Verona. Una squadra, una città. L’antistadio rappresenta l’identità, la tradizione, la passione. La possibilità di un saluto, di uno sguardo. Un fattore aggregante, strumento cogente della cultura calcistica che contraddistingue l’Hellas. In quanti, per primo il vostro semplice scrivano, ha, tra i più forti ricordi d’infanzia, i giorni in cui il papà ti accompagna, bimbetto, a bordo campo, attaccato alle recinzioni. A divorare con gli occhi il pallone, a sognare, a battere le mani per un gol, per una parata, per un dribbling. Immaginare, fantasticare, correre a casa e ripetere, in cortile o in soggiorno, quel tiro, quel tocco di tacco, quella finta. Non è questa la magia perpetua dello Splendido Gioco, il calcio?

Ecco perché il ritorno all’antistadio, sia pure non a lungo termine, e in modo sporadico, rappresenta un grande ponte tra il Verona e i suoi tifosi. L’ha ben capito Maurizio Setti, a cui da queste colonne non abbiamo risparmiato le critiche per certe scelte compiute in passato (come pure ne sono stati riconosciuti i meriti per altre, non ultime quelle della scorsa estate, dopo la sventurata retrocessione in B). Spesso il presidente, forse perché mal consigliato, è parso troppo staccato dalla realtà dell’Hellas, glaciale, raziocinante senza nulla concedere all’adrenalina di un attimo irripetibile. L’investimento – circa 230mila euro – effettuato per rinnovare l’antistadio, le parole impiegate per commentare la vicinanza che, grazie a quest’opera, ci può essere, c’è e ci sarà tra l’Hellas e la sua gente, sia il viatico per una connessione più stretta tra Setti e il grande popolo gialloblù.

Dalle piccole cose nascono grandi cose, e a comprenderlo per primo è stato Fabio Pecchia. Il Verona avrebbe dovuto accedere all’antistadio attraverso il tunnel sottostante la strada. Proprio Pecchia ha voluto che la squadra, invece, passasse in mezzo alla gente, ne accogliesse l’abbraccio. Pecchia non ha cercato né celebrazioni, né pacche sulle spalle, men che meno facili endorsement di piazza. Non ha fatto il tribuno, ma l’uomo di calcio. L’allenatore. E ora continui nella sua missione: questo Verona, questa Verona, deve tornare in Serie A.

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